Dalla ricerca

Ricercatore e neuropsichiatra che fa dell’ascolto un valore guida: intervista al prof. Andrea Guzzetta

Andrea Guzzetta è Professore Associato di Neuropsichiatra. Il suo principale campo di interesse clinico è quello della patologia neurologica nel neonato e nel lattante (stroke, prematurità, asfissia perinatale…) e più in generale di tutti i casi di paralisi cerebrale infantile. Ha all’attivo oltre 150 pubblicazioni in neurologia infantile incentrate sulla riorganizzazione precoce del sistema nervoso e delle sue principali funzioni (motorie, visive) e sui meccanismi neuroplastici sottostanti con l’obiettivo generale di migliorare i paradigmi di intervento precoce. Lo abbiamo voluto intervistare, ecco cosa ci ha risposto.

Prof. Andrea Guzzetta lei è un giovane ricercatore e un professionista autorevole, come si diventa come lei?

Non sono in grado di valutare la mia autorevolezza, ma qualunque essa sia la devo interamente alle persone che ho incontrato nel mio percorso.

Lei ha fatto importanti esperienze di ricerca prima in Gran Bretagna e in Germania e poi in Australia, ce ne può parlare?

Le esperienze all’estero per un ricercatore sono indispensabili. Ti consentono di conoscere mille modi diversi per affrontare la stessa sfida, cosi che tu possa comporre una tua personale strategia prendendo il meglio da ogni esperienza. In molte occasioni mi hanno anche aiutato a valorizzare quanto facciamo nel nostro Paese, come ad esempio nel caso del nostro approccio alla presa in carico precoce o all’inclusione sociale, frutto di una visione unitaria sullo sviluppo della mente e del cervello del bambino.

Ci parla di qualcosa che per lei è stato importante nella vita?

La cosa che ha cambiato maggiormente il mio approccio alla vita e al mio lavoro è stato il diventare padre. Non è ovviamente una sorpresa, ma non mi aspettavo mi avrebbe cambiato così tanto.

Lei è a capo di un importantissimo progetto europeo, che obiettivi pensa si possa raggiungere a breve con ricadute sulla salute dei bambini?

Il progetto che ho l’onore di coordinare ha l’obiettivo di aiutare tutti quei bambini che abbiano avuto difficoltà durante la gravidanza o al parto e che sono – per questo – a rischio di sviluppare un disturbo neurologico. Stiamo creando una rete a livello europeo che consenta di formare i clinici del presente e del futuro sulle modalità più efficaci per identificare questi bambini e iniziare con le loro famiglie un percorso di intervento precoce che possa migliorarne la prognosi e la qualità della vita a lungo termine. È un progetto ambizioso che coinvolge diversi paesi dell’Unione Europea, ma anche Georgia, Sri-Lanka e Australia, rappresentando in questo momento la più ampia iniziativa di questo genere al mondo.

Quanto la ricerca ha contribuito a imporre la diagnosi precoce?

La strada da fare è ancora lunga, ma i presupposti sono molto buoni. L’aspetto che sta spingendo maggiormente questo cambiamento di prospettiva è la sempre maggiore consapevolezza che la diagnosi precoce può consentirci un intervento più tempestivo e darci molte più probabilità di incidere sulla storia naturale del disturbo neurologico, grazie all’enorme plasticità del sistema nervoso nei primi mesi ed anni di vita. Inoltre, sempre più vi è il riconoscimento del ruolo centrale e insostituibile della famiglia nello sviluppo di ogni bambino, insieme al diritto inalienabile alla conoscenza di tutto ciò che li riguarda. 

Come pensa evolverà la sua disciplina e il campo di ricerca in cui è protagonista?

È facile prevedere che il processo diagnostico in questo come in altri ambiti sarà sempre di più supportato dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale. Ciò che non cambierà mai e rimarrà sempre compito dell’uomo è l’intervento, almeno nelle sue componenti più essenziali, ovvero nell’affiancare i familiari del bambino nel percorso di sostegno allo sviluppo del loro bambino. Il nostro compito è e sempre sarà quello di dare ai genitori gli strumenti di conoscenza sui meccanismi più complessi e affascinanti del funzionamento e della plasticità del sistema nervoso, in modo che possano esprimere la loro genitorialità nel modo più consapevole ed efficace.

Quando e dove nasce l’intuizione, l’idea di un progetto scientifico?

Per un ricercatore clinico come me, l’idea di un progetto nasce sempre dal riconoscimento di un bisogno. E nello specifico della nostra disciplina, da un bisogno di un bambino e della sua famiglia. A volte sono bisogni chiari ed espliciti. Ma più spesso sono nascosti e occorre prendersi del tempo per riconoscerli. Potrebbe sembrare tempo sprecato, ma è invece la fase cruciale del processo perché garantisce che tutto ciò che seguirà abbia senso.

Lei ha un rapporto speciale con i pazienti e le loro famiglie: per una mamma o un papà il cui figlio ha una patologia neurologica così grave con bambini così piccoli, che consigli generali darebbe?

Posso solo dare consigli specifici relativamente a ciò che conosco della patologia, della sua evoluzione e del suo trattamento. Per il resto posso solo ascoltare. C’è un solo consiglio che ci concediamo di dare quasi sempre ai genitori che si rivolgono a noi. Ed è quello di prendersi molta cura di loro stessi e dei loro bisogni, ancor prima di quelli del loro bambino. Per questo usiamo l’analogia dei voli in aereo, quando il comandante chiede a tutti di indossare la maschera dell’ossigeno prima di aiutare il loro bambino. Per quanto ad un genitore ciò possa sembrare innaturale, è quello di cui ha bisogno ogni bambino, un adulto nelle condizioni migliori possibili. Con tutto l’ossigeno necessario.

Cosa consiglierebbe a un giovane che voglia diventare come lei non solo un ricercatore ma anche un clinico di grande competenza?

Chiaramente non esiste un solo modo per raggiungere le competenze professionali e ognuno può costruirsi un percorso ritagliato sulla propria natura. Mi è più facile dire quali sono stati i momenti nel mio percorso che mi hanno fatto capire che stavo sbagliando e che era necessario cambiare. Tutte le volte che pensavo di avere capito tutto di una patologia, di un paziente, di una famiglia o di un mio collaboratore. Ad un giovane medico o ricercatore direi soltanto di tenersi lontano dall’illusione di avere ascoltato abbastanza. Non sarà mai così.

Una domanda più personale. Quali sono le sue passioni, i suoi hobby?

Non so se si possa definire una passione, ma la mia professione mi ha portato a viaggiare moltissimo. È una fortuna impagabile, perché prendere consapevolezza delle infinite sfumature della realtà mi ha aiutato a dare il giusto valore alle cose.

Il professore Pietro Pfanner, nostro fondatore insieme a Don Aladino Cheti, sosteneva che non si può essere un bravissimo neuropsichiatra se non si e’ letto Dostoevskij, se non si ascolta musica, se non legge poesia. Che cosa ne pensa?

Il Prof. Pfanner era un uomo di profonda cultura come raramente capita di incontrare. Ed è stato fondamentale per tutti i suoi allievi averlo come modello. Credo che ciò che intendesse dire è che per essere un bravo neuropsichiatra infantile non è sufficiente conoscere la patologia ma occorre comprendere a fondo l’uomo e la sua natura. Ciò è vero più che in qualunque altra disciplina della medicina, ed è forse la ragione per cui da umanista l’ha scelta tra tutte.

Qual è la forza di una carezza?

È incalcolabile. E ancora una volta ce lo conferma la scienza. In uno studio di alcuni anni fa abbiamo dimostrato come attraverso il contatto tra madre e bambino, fin dai primissimi giorni di vita, si potenzi in modo naturale la plasticità del sistema nervoso, con conseguenze tangibili sullo sviluppo del bambino. In questo senso non appare azzardato affermare che il contatto pelle a pelle tra madre e bambino sia uno dei meccanismi principali attraverso cui si formano i primi momenti del processo della conoscenza.

Grazie professore

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